L'incredibile storia del ginseng

Ginseng, la radice della vita di Nico Valerio, Edizioni Aporie, lire 36.000

Capitolo I

Mosè conosceva il ginseng? Nella Bibbia una droga misteriosa detta pan-nag è citata in modo tale da far pensare che si tratti di una spezia di valore, su cui poter imbastire un commercio molto lucroso. E’ elencata, infatti, accanto ad altri beni di qualità, alcuni forse importati dall’Oriente, ma fondamentali per l’economia del popolo d’Israele. Fatto sta che verso l’anno 1300, cinquantadue generazioni prima della nascita di Cristo, come si legge nel “Libro di Ezechiele” (27:17) in un passo poco noto del Vecchio Testamento, c’era chi in quell’area geografica che oggi definiamo genericamente Medio Oriente commerciava in “grano di Minnith, pan-nag, miele, olio e balsamo”. Di qualunque cosa si trattasse, certo tutti dovevano conoscere il pan-nag; ma è probabile che solo pochi fossero in grado di acquistarlo. A maggior ragione, quindi, anche il profeta Mosè, che apparteneva alla riverita casta dei sacerdoti e sarebbe stato il primo legislatore degli Ebrei, avrebbe potuto usare il pan-nag.
Il pan-nag è il panax? Partendo dal termine scientifico in latino, che il naturalista Linneo gli attribuì nel XVIII secolo, alcuni autori (tra i quali il Fulder, 1980) hanno azzardato che si possa trattare davvero del leggendario panax di Greci e Romani. Una tesi che lascia perplessi, perché fino alla dotta citazione del botanico e latinista svedese nessuno in Cina aveva mai chiamato così questa radice.
Ma è di certo un’incredibile coincidenza che panax fosse per gli antichi Greci, e poi anche per i Romani, la mitica panacea (panakeia) che, come tramandano mitologi e naturalisti antichi, era un’erba che curava tutti i mali e non faceva sentire la fatica, anch’essa mitizzata fino a venire adorata come una sorta di divinità. Oggi se ne sa così poco che una tale ipotesi potrebbe perfino essere avvalorata, se è vero che i botanici dell’Ottocento si divisero sul nome delle varie specie di ginseng, ma non certo sul nome da dare al genere: Panax (da pan, tutto, e akos, farmaco). E i naturalisti, nel creare i nuovi nomi scientifici, hanno già mostrato in passato di attingere spesso agli antichi nomi colti in uso nel mondo greco-romano, magari in Plinio o Columella.
La storia della “panacea degli imperatori”, l’erba più rara e preziosa che sia mai apparsa sulla terra, inizia non con un Mosè ma con un Noè dei Tartari vissuto verso il 3000 a.C., che mette in salvo non gli animali ma le erbe, i fiori e le radici. Il mito lo ha consegnato alla memoria degli uomini con il nome leggendario di Shen Nung (“Divino coltivatore” o “Divino aratore”), un uomo considerato saggio e per questo potente, forse un principe o un alto sacerdote, per i Cinesi ad un tempo il padre dell’erboristeria e della medicina (discipline che, anche in Occidente, coincisero fino al XIX secolo), colui che “aveva provato cento erbe”, che aveva insegnato alle genti, nientemeno, l’agricoltura e la domesticazione degli animali, ed anche per questo era venerato come eroe, capostipite o fondatore
Il trattato sulle malattie e i farmaci compilato sotto il suo nome, in realtà, pare sia stato scritto solo dal 456 al 536 d.C. E’ stato tramandato come un grandioso patrimonio di medicina popolare da conservare per i posteri, un’eredità culturale in cui i farmaci non sono altro che spezie ed erbe della natura. Il nome di Shen Nung, però, secondo Joseph Needham, doveva essere già noto ai Cinesi almeno fin dal II secolo a.C. (Fulder 1996).
Come per le Tavole della legge di Israele, come per le XII Tavole della legge di Roma, così per il cinese Shen Nung Pen Tsao Ching o Repertorio delle erbe mediche del Divino Coltivatore, un codice –in questo caso fitoterapico– finisce per diventare l’elemento su cui si fonda l’identità culturale di un intero popolo. Ma in Cina il “profeta delle erbe” nei suoi comandamenti non punisce omicidi, furti e adultéri; si limita ad insegnare a riconoscere le piante e a prescrivere rimedi efficaci contro ogni malattia.
In uno stile moderno, tanto è sintetico, il Divino Erborista spende solo 44 antichi ideogrammi cinesi per descrivere caratteristiche e proprietà della radice che già allora tutti i cinesi consideravano il farmaco principe. E senza l’enfasi degli orientali d’oggi, forse una nota di leggerissima ironia può essere colta nelle parole con cui il Divino Erborista, al tempo stesso “Grande Copywriter”, si esprime su quello che è il primo “farmaco dell’anima”, che –anche se lui non lo dice– per la sua rarità avrà la forza di arricchire i poveri e impoverire i ricchi: “La radice è chiamata anche Jen Hsien (caricatura dell’uomo) o Kuei Kai (ombrello del diavolo). Ha sapore dolciastro e proprietà di leggero rinfrescante. Cresce nelle gole delle montagne. E’ usato per riparare le cinque viscere, acquietare lo spirito, domare le emozioni, frenare l’agitazione, allontanare le influenze nocive, schiarire gli occhi, illuminare l’animo e aumentare il giudizio. Se la usi di continuo ti dona lunga vita e peso leggero” ( trad. di S.Y.Hu,1977).
Ma sull’uso del ginseng in Cina esistono anche altre antiche testimonianze più sicure storicamente di quella del mitico Erborista di Dio. La radice è citata in Keub Chui, un testo scritto da Sa Yu (33-48 a.C.), e in Shang Han Lun, compilato da Chang Chung Ching nel 196-200 a.C., secondo S.K.Hong (1982). Quest’ultimo è un prontuario medico che riporta 21 prescrizioni terapeutiche a base di ginseng, sul totale di 113 prescrizioni di cui è composto il libro. Secondo l’autore coreano H.W.Bae (1975), invece, questo prontuario risale al 200 dopo Cristo.
In quanto all’attribuzione della scoperta dell’efficacia terapeutica della radice, è diffusa in tutto l’Oriente una leggenda che l’attribuisce all’altrettanto mitico e misterioso filosofo Lao Tse (circa 604 a.C.), fondatore del taoismo. Anche Confucio, 2500 anni orsono, avrebbe conosciuto il grande potere benefico della pianta, a quanto riferisce G.E.Patty (1974).
Si deve distinguere, però, tra la prima menzione del nome “ginseng” e il presumibile inizio dell’uso popolare della pianta. La prima citazione sarebbe contenuta nel libro Chi Chin Ping diffuso sotto l’imperatore Won, della prima dinastia Han (33-48 a.C.). Secondo altri, è vero, il suo nome si trova citato in un documento orientale per la prima volta nel I secolo a.C.; ma si tratterebbe invece del poema L’interpretazione delle creature scritto dal letterato cinese You Shi.
Molto più remoto è il presumibile inizio dell’uso popolare della pianta, che potrebbe risalire a più di 4000 anni avanti Cristo, come ritengono B.W.Halstead and L.L.Hood (1984). In realtà, anche la scoperta di questa radice, che in origine era quasi certamente d’uso alimentare (tanto che viene masticata fresca ancor oggi) e solo in seguito curativo, sembra perdersi insieme con altri vegetali nei secoli che videro l’alba della civiltà, come suggeriscono paleobotanici e antropologi. Ad ogni modo, nel citato Pen Tsao o “Libro delle Erbe” del Divino Coltivatore Shen Nung, che fu revisionato molto più tardi (452-536 d.C.) da T’ao Honh Jiang, sono stati trovati riferimenti sicuri che riportano il ginseng molto indietro nel tempo, almeno fino al 2600 a.C.
Una seconda grande farmacopea, più imponente della prima, compilata nel 1578 dallo studioso Li Shih Chen e conosciuta come Pen Tsao Kang Mu, studiò e selezionò in modo critico circa 500 opere di medicina pervenute fino ai suoi tempi, classificando le tecniche e i rimedi migliori, e aggiungendone di nuovi tratti dalla personale esperienza terapeutica dell’autore. In questo trattato, che comprende ben 1892 farmaci e circa 10 mila ricette, il ginseng ha il ruolo principale. Una moderna review o meta-analisi scientifica –si direbbe oggi– che nel 1972 ha avuto l’avallo della classificazione scientifica in una riedizione critica moderna a cura dell’Istituto farmacologico di Nanchino, che ha controllato e riclassificato per la prima volta 2000 sostanze, sia con i nomi cinesi che latini (Yao Chai Hsueh 1972).



Cerchiamo di guardare questa curiosa radice con gli occhi dei cinesi arcaici. Era considerata antropomorfa, cioè di forma umana, senza essere opera dell’uomo. “Sicuramente a causa di qualche prodigio divino”, avranno concluso i saggi orientali dell’antichità. Un’umile radice dallo strano fittone “a due gambe”, rappresenta, così, agli occhi ingenui degli antichi popoli d’Oriente la materializzazione della divinità dell’uomo, forse anche l’essenza stessa della terra o lo spirito invisibile della natura, o –chissà– il simbolo stesso del potere di Dio. E’ questa l’interpretazione che ne ha dato lo studioso coreano S.Y.Hu.
D’altra parte, sono ben note agli studiosi dei Miti e agli antropologi culturali l’emotività dei nostri progenitori, la loro capacità di essere facilmente sedotti dalle lunghe storie avventurose tramandate oralmente – l’unica forma di informazione disponibile a quei tempi– e suggestionati dalle immagini e dalle più strane ed evocative forme spontanee della natura. Il Frazer, nel suo Il ramo d’oro, ha rivelato come fino a 2000 anni fa, non nella lontana Cina ma sulle rive del Tevere, il frutto del fico a causa della sua rassomiglianza fosse collegato nei riti e nella medicina popolare alla mammella della donna. E secondo il nostro G.B.Vico, è la creatività dei “popoli fanciulli”, in cui come nell’infanzia dell’uomo la ragione è sopraffatta dall’immaginazione, che caratterizza il primo stadio culturale della parabola della civiltà.
La somiglianza esteriore o analogia, come criterio per indovinare le indicazioni terapeutiche di un vegetale, era uno dei principi di base della medicina arcaica, fondata sulla magia e sul Mito. Tanto che ancor oggi influenza alcune attribuzioni curative della cosiddetta etnomedicina, considerata da alcuni una branca antropologica “Politically correct” delle medicine alternative, e in conseguenza riconosciuta recentemente anche dall’Organizzazione mondiale della Sanità (WHO). Ogni parte di vegetale era creduta adatta a curare l’organo del corpo umano a cui somigliava. Il seme a forma d’occhio della Actaea, ad esempio, era indicato per i disturbi della vista e degli occhi; una radice rigida era raccomandata contro l’impotenza; un frutto a forma di cuore veniva prescritto nelle malattie che oggi definiremmo cardiocircolatorie; una pianta dal lattice rosso serviva per le malattie del sangue; il frutto del fico –si è già detto– era adatto a proteggere l’allattamento e le mammelle e a favorire la fecondità. Del resto la “dottrina dei segni” fondata sulle caratteristiche esteriori di presunta somiglianza della pianta-farmaco con gli organi da curare, è stata uno dei fondamenti teorici della nostra stessa medicina “ufficiale”, nell’Occidente a torto ritenuto “razionalista”, fin quasi al secolo scorso. E a quale terapia i guaritori antichi potevano mai indirizzare una radice che aveva la forma non di un organo ma dell’intero corpo umano? Naturalmente a tutti i mali dell’uomo nella sua totalità, in modo non specifico.
Intuizione, questa, che caduta ormai da tempo la teoria pre-scientifica della somiglianza, è stata oggi recuperata dalla medicina sperimentale, e rappresenta una doppia notevole coincidenza non solo con il carattere olistico (da olos, tutto) delle varie medicine naturali per cui il “terreno”, cioè l’ambiente organico con le sue molteplici interazioni, è più importante del singolo organo; ma anche in particolare con la conclamata “aspecificità” dei farmaci cosiddetti tonici-adattogeni propri della moderna fitoterapia.
Ad ogni modo, sulla radice di ginseng sono stati trovati o citati documenti risalenti al 502-555 d.C. (dinastia Liang) che riferiscono tempi di raccolta, centri di produzione e caratteristiche morfologiche precise. A quel tempo si riteneva che il miglior ginseng provenisse dalla regione dello Shang Tang (oggi Chang Chilh, nella provincia di Shan Si), oppure dalla zona del Liao Tung, a est del fiume Liao, o da una certa parte della Corea.
Molti secoli dopo –fanno notare gli storici della medicina orientale– questa pianta che era riservata in pratica alla cura di imperatori e sacerdoti diventa sempre più importante nella farmacopea della Cina, e perciò molto ricercata nonostante la sua rarità e l’alto prezzo. Nella metà del XVII secolo un trattato medico coreano che comprende 2216 prescrizioni ne riserva ben 509, ovvero un quarto del totale, a questa radice.
Ed anche l’Occidente antico, con la sua abilità nei commerci e la sua grande cultura delle erbe curative, è certamente sempre stato a conoscenza dell’esistenza di questa radice panacea. Anche il mercante e viaggiatore veneziano Marco Polo la conobbe durante il prolungato soggiorno nel “paese dei Tartari” e la menzionò nel libro Le dévisement du monde (secolo XIII), tradotto poi in italiano col titolo “Il Milione”, come il vero segreto della leggendaria resistenza di quel popolo nomade nelle lunghe scorribande a cavallo.

 

Che pianta è, dopotutto, quella che Cinesi e Coreani idolatrano da almeno 7000 anni? A ben vedere, è un’erba molto modesta, quasi spoglia, poco appariscente nella sua parte aerea, ha notato W.Embolden nella sua guida alle “piante bizzarre” (Embolden 1974), con doppio distacco di razionalista anglosassone e di botanico. Era tale nell’antichità il fascino di questa strana radice “a forma d’uomo” anche allora rara e costosa, a cui non solo il popolo ma soprattutto i re e i sapienti attribuivano la virtù di curare quasi tutti i mali, compresi i più difficili “mali dello spirito”, che bastava la speranza, anche remota, di trovarne pochi esemplari nel sottobosco delle regioni montagnose tra Cina e Siberia, per scatenare scorribande di predoni armati, inseguimenti da parte di soldati dell’imperatore, e addirittura vere guerre economiche tra i potentati locali per il possesso dei territori segreti dove si sapeva che la pianta portentosa e costosa prosperava.
L’umana sete di guadagni, il potere carismatico dei guaritori, il desiderio di confermare con una medicina rara ricchezza e status sociale, la mancanza di libera concorrenza e l’economia rigidamente corporativa, sono tutti elementi caratteristici della società cinese che nella raccolta della radice panacea confluiscono e si rivelano, come nello specchio d’una società.
Probabilmente dopo scontri furibondi e sanguinosi tra opposte bande di cercatori, fu costituita sùbito una corporazione ufficiale patrocinata o riconosciuta dall’imperatore che aveva il monopolio della raccolta e forse anche del commercio del ginseng. I raccoglitori autorizzati a ricercare e strappare al terreno la rara radice selvatica, in Cina si chiamavano Va Pang Sui e dovevano essere coraggiosi come guerrieri, perché rischiavano la vita. Facevano parte di una congregazione chiusa le cui regole rigorose avevano regole monacali che oggi ci appaiono incomprensibili.
Qualche tempo prima di iniziare la ricerca e la raccolta, ad esempio, erano obbligati a “purificarsi”, cioè a smettere di mangiare carne e di avere rapporti sessuali. Questo confermerebbe l’ipotesi avanzata da alcuni mitografi, secondo cui la radice di ginseng era considerata in qualche modo “sacra”, e dunque vietata ( dal latino sacer = proibito ai non iniziati) e perciò chiunque si apprestasse a toccarla doveva prima purificarsi totalmente nel corpo e nello spirito. Il segreto più ferreo, naturalmente, proteggeva i luoghi esatti dove crescevano le piante spontanee di ginseng. Ma ciò non bastava. Le associazioni dei raccoglitori avevano anche un loro linguaggio segreto, speciali rituali propiziatori, e sembra che dessero molta importanza al potere divinatorio dei sogni, forse per avere “visioni” premonitrici su sempre nuovi insediamenti della pianta, man mano che la raccolta intensiva spogliava il sottobosco delle foreste temperate della preziosa radice. Una parte di questi rituali di gruppo sono curiosamente sopravvissuti in epoca moderna.
I raccoglitori ufficiali, per le cui mani passavano vere e proprie fortune sotto forma di piccole radici gialle, erano di frequente depredati da banditi altrettanto specializzati, noti col nome affascinante di “cigni bianchi”, nonostante che tentassero di terrorizzarli preventivamente urlando di notte nelle foreste. Ma i “cigni bianchi” per loro fortuna non credevano tutti agli orchi e ai fantasmi della foresta, e alcuni di loro non esitavano ad uccidere pur di impossessarsi della radice rara e costosa che li avrebbe reso ricchi.
Costoro si occupavano solo di ginseng, come oggi la malavita può dedicarsi unicamente alla cocaina o all’eroina. Più civili dei ladri d’oggi, però, per non rischiare di depredare più volte lo stesso raccoglitore –il che avrebbe scatenato l’ira degli dèi riversando sul colpevole un karma negativo—questi strani predoni timorati di Dio consegnavano alla vittima uno stendardo bianco orlato di rosso (Fulder 1996), che nel loro linguaggio voleva dire “già derubato, grazie”. O “moralità” dei rapinatori antichi.


La felicità, com’è noto, non ha regole certe, ma sui modi di raggiungere la ricchezza le idee non mancano. Tale era in Oriente il peso di simboli esoterici, superstizioni e tradizioni di medicina popolare che gravava sul ginseng, che per ogni singolo individuo –coreano o cinese che fosse– tutto era considerato lecito purché fosse in grado di assicurare anche un solo pezzetto di questa radice che prometteva non solo il benessere ma, agendo sulla psiche, addirittura la felicità. E se questa era la mentalità dell’uomo comune orientale, figuriamoci quella dei potenti.
Non c’è da meravigliarsi, dunque, che gli imperatori, i governatori delle provincie ed anche i più vari eserciti di occupazione (l’ultimo è stato l’esercito dell’Unione Sovietica in Corea, dal 1945 in poi) abbiano praticato in Manciuria o nella penisola coreana una politica di sistematica spoliazione e sfruttamento della risorsa più preziosa. La Russia, col pretesto di “analizzarlo” e di “sperimentarlo”, ha confiscando per decenni l’intero raccolto di ginseng della Corea del nord. In passato, come raccontano le antiche cronache, un re dei Tartari –evidentemente il vizio è genetico—arrivò a chiudere un’intera provincia buona produttrice di ginseng con un’alta e invalicabile palizzata, pur di impedire ai bracconieri, numerosi nonostante la pena di morte, di impossessarsi del “suo” raccolto di ginseng che avrebbe dovuto dargli ricchezza e felicità.
Nel 1709 l’imperatore della Cina, che non si sa se volesse rimpinguare le casse del Tesoro o quelle personali, inviò ben diecimila soldati a cercare radici di ginseng con la strana consegna di portargli, per uso personale, solo un peso di due chati (circa un chilo) delle preziose radici: il resto lo avrebbero dovuto vendere a peso d’argento. E ci furono tempi, durante l’impero, in cui la magica radice a forma d’uomo si vendeva letteralmente a peso d’oro e ancor di più. E’ stato calcolato che un imperatore cinese abbia pagato una bella e grossa radice ben stagionata l’equivalente odierno di circa 10 mila dollari o euro, vale a dire ben 20 milioni di lire (Gronewold 1984).
A quanto si può trovare sul mercato, oggi, una radice di Panax ginseng? Sempre a prezzi da gioielleria. Una buona radice di prima qualità, anche solo a valutarla in peso, oggi può costare molto più dell’oro, e sul mercato internazionale può valere oltre 250 volte il suo peso in argento. Di recente, un farmacista cinese con bottega nella China Town di New York ha offerto ad un fornitore, all’ingrosso, 10 mila dollari per una radice selvatica di ottima qualità. Chissà a quanto sarà stata venduta al minuto. Anni fa, a Mosca, negli stand dell’Esposizione agricola permanente, faceva bella mostra di sé un esemplare enorme –quindi di pianta molto vecchia– che era valutato intorno ai 25 mila dollari (pari a circa 25 mila euro o 50 milioni di lire). Non deve meravigliare, dunque –commenta il citato Fulder– la battuta sarcastica che circola da tempo in Manciuria: “Mangia ginseng e andrai in rovina”.
Ed è strano per noi occidentali che perfino i poveri in Oriente cerchino di ottenere i pezzi più grossi e costosi che possono della radice. Li conservano gelosamente in scatole di legno di balsa, talvolta ricoperte da una lamina di piombo, “per contenere le benefiche ‘radiazioni’ della radice”, come gli ‘esperti’ locali suggeriscono con curioso sincretismo pseudoscientifico est-ovest. Ne mangiano piccolissimi pezzetti alla volta o, se hanno conservato la radice in alcol, sorseggiano il tonificante liquore nelle grandi occasioni bevendo da bicchierini minuscoli come ditali.
In Occidente, ieri come oggi, una tale infatuazione per una radice è sempre apparsa eccessiva e irrazionale. Tra i profani increduli, in Europa e in America, i più l’hanno vista solo come “colore locale”, una delle tante “stranezze o fissazioni degli Orientali”. Ma da quando sempre più numerosi ricercatori, anche occidentali –non tutti, certo, sospettabili di interessi commerciali– stanno documentando con nuovi esperimenti scientifici che le intuizioni degli antichi cinesi sulle virtù terapeutiche del ginseng non erano poi così infondate, gli scettici e gli ironici rischiano di fare la figura dei negatori prevenuti.
Non è chiaro quando, esattamente, la radice di Panax ginseng abbia cominciato ad essere regolarmente importata in Europa arricchendo importatori e mercanti. A parte gli scambi sporadici dei mercanti europei con quelli del vicino Oriente che, come si è detto, dovevano probabilmente importarla da millenni –se non è troppo azzardata l’interpretazione del passo della Bibbia– quasi certamente dalla città di Samarcanda capolinea della collaudata “via della seta”, si attribuisce al solito arabo, il navigatore Ibn Cordoba, che commerciava con la Cina, il merito di aver fatto conoscere il ginseng ai medici e speziali dell’Europa occidentale, verso la metà del IX secolo d.C.(Fulder 1996).
Ad ogni modo, è dato per certo che i medici arabi lo conoscessero e utilizzassero già da tempo. I mercanti veneziani, da parte loro, ebbero per secoli il monopolio di quasi tutte le droghe orientali. Avidi com’erano, volete che si siano lasciati sfuggire una radice che assicurava così alti guadagni, a cui aveva accennato anche il veneziano Marco Polo? Di certo, non sui carretti dei ciarlatani senza scrupoli delle fiere, ma nelle migliori spezierie di Venezia e delle altre grandi città commerciali europee, accanto alle innumerevoli “panacee” di dubbia efficacia, ci doveva essere anche la radice cinese. Anzi, è probabile che facesse parte della formula più costosa della teriaca veneziana.
Dopo Venezia fu la volta dei rapaci importatori inglesi della East India Company, e poi soprattutto dei non meno avidi commercianti olandesi della Compagnia delle Indie Orientali, che dalla fine del Seicento conquistò di fatto il monopolio della radice cinese importandola regolarmente, insieme con le droghe più diverse, per rivenderla a caro prezzo sul mercato di Rotterdam e da lì con varie intermediazioni in tutt’Europa, realizzando guadagni altissimi. La speculazione commerciale sul ginseng si estese allora stabilmente dalla Cina al Vecchio Continente e ben presto avrebbe interessato anche l’America, ma in un modo imprevedibile.


Nessuno può davvero immaginare che i Cinesi e i Tartari avrebbero mai attribuito un così alto valore a questa radice, se questa non avesse costantemente prodotto dei buoni effetti”, scriveva nell’aprile del 1711 con molto buon senso il pragmatico missionario francese padre Jartoux al suo superiore dei Gesuiti, il Procuratore generale delle missioni in India e Cina (Bergner 1996). Che è come dire in modo più elegante la celebre battuta di un anonimo inglese: “Si può prendere in giro un solo uomo e una volta sola; è impossibile prendere per il naso tanti uomini e per tanto tempo.
Forti di questa intuizione psicologica, i gesuiti che nel Settecento –spesso con poco successo– andavano a “convertire” la Cina sulla scia delle antiche missioni dei veneziani fratelli Polo, avevano capito subito, grazie anche alla loro conoscenza delle faccende e delle anime orientali, che dietro quella millennaria esaltazione popolare qualcosa di vero doveva pur esserci.
Ma chi è questo strano prete, e perché un uomo di Chiesa s’interessa così tanto ad una radice che la farmacopea popolare cinese considera oltretutto un potente afrodisiaco? Nel 1709 il gesuita francese Petrus Jartoux, invitato come cartografo dall’illuminato imperatore cinese Khang Shi per una spedizione in Manciuria, vicino al confine con la Corea, riceve un lussuoso regalo che in un primo momento sottovaluta: un cestino contenente quattro radici di ginseng selvatico, una pianta che non ha mai visto prima e che i Tartari nominano con rispetto orhota, ovvero “madre di tutte le erbe”. Vuole provarle.
Sfinito dopo un lungo viaggio a cavallo, anziché buttarsi sul letto e dormire un’intera notte, su consiglio dei suoi ospiti tartari mastica un solo pezzetto di radice e si sente fresco e riposato nel giro di un’ora. Così può riprendere immediatamente la cavalcata. Meravigliato dell’insolita reazione e anche dalle altre eccezionali proprietà della radice che man mano va scoprendo, invia una minuziosa relazione intitolata “Descrizione della pianta tartara ginseng” alla rivista scientifica Philosophical Transactions che la Royal Society pubblica a Londra, insieme con un accurato disegno dell’intera pianta (1714):
“Chi è in buona salute –scrive padre Jartoux– fa uso di questa radice per diventare più vigoroso e resistente. Sono convinto che questa potrebbe diventare un’eccellente medicina nelle mani di chiunque in Europa si intenda di farmacia, se ne avesse –beninteso– una quantità sufficiente per condurre qualche esperimento necessario ad esaminarne la natura chimica e ad impiegarlo nelle giuste dosi a seconda delle malattie per le quali può essere benefica…” (Bergner 1996)).
Un rapporto che, a poco a poco, fa breccia nell’intelligenza degli scienziati d’Europa. E intanto il ginseng comincia ad essere meglio conosciuto presso gli ambienti medici e scientifici del vecchio continente e apprezzato in particolar modo dalle aristocrazie e dalle corti regnanti. Al Re Sole Luigi XIV di Francia una ambasceria giunta dal lontano Siam può così offrire in dono una magnifica radice di Gintz Aen rosso, senza timore di vedersi rifiutare o accantonare il dono non gradito.
Da allora in poi la scatola di legno della radice cinese si conquista uno scaffale fisso nelle odorose botteghe di spezie di tutt’Europa. Nelle farmacie olandesi viene sempre più spesso consigliato ai ricchi pazienti in caso di debolezza ed esaurimento. Finché nell’800 diventa un farmaco molto diffuso, al punto da essere inserito in alcune farmacopee d’Europa più attente ai farmaci esotici, come quella del francese Geoffroy (Fulder 1996).
Poi, dalla seconda metà del secolo inizia una crisi che sarebbe inspiegabile se non si tenesse conto di due fattori concomitanti: il normale ciclico andamento delle mode e soprattutto la rapida trasformazione della medicina empirica che da millenni aveva fatto ricorso alle piante naturali in medicina sperimentale fondata sui farmaci, che finisce per monopolizzare l’attenzione dei circoli scientifici di tutto l’Occidente
Invece, secondo un’opinabile tesi di Fulder, la causa di questa crisi del ginseng fu l’arrivo sul mercato d’Europa di due più economiche specie di ginseng del Nord America, e poi, nei decenni a noi più vicini, la rarefazione e quasi la definitiva scomparsa della specie selvatica coreana di Panax ginseng, e la contemporanea immissione in commercio della specie coltivata. Negli scaffali, degli speziali prima e degli erboristi poi, si sarebbe generata nei decenni scorsi –secondo il Fulder– una confusione tale tra le tre differenti radici –diversissime tra loro per efficacia e prezzo– da gettare sul ginseng l’ombra del discredito popolare e dell’incertezza terapeutica che solo oggi, in parte, sta scemando, grazie alla riscoperta naturistica dei farmaci vegetali e delle “medicine naturali in generale (Fulder 1996).
Una tesi infondata, innanzitutto perché il ginseng americano è altrettanto potente di quello coreano, anche se ha indicazioni leggermente diverse (vedi capitolo della Farmacologia). Tanto è vero, che in Cina è tuttora in grande considerazione. Ad ogni modo, oggi non è più tempo di crisi; anzi il ginseng sta ritrovando il suo pubblico e il suo mercato. E c’è ragione di ritenere che quando saranno noti al pubblico di pazienti e medici i risultati favorevoli degli ultimi studi sperimentali e clinici –anche attraverso questo libro– tutti i tipi di ginseng, l’antica “radice degli imperatori”, vedranno finalmente confermati il favore popolare e la piena credibilità scientifica.

Siamo nel Settecento, in piena guerra di indipendenza della colonia americana contro la madrepatria inglese. L’uomo politico George Washington (1732-1799), vittorioso capo dell’esercito e padre dell’indipendenza americana, un giorno del 1784 scrive tra i suoi appunti una breve ma sorprendente nota di diario:
“Mentre ero in viaggio da ovest verso l’Ohio, mi sono imbattuto in numerosi muli
con balle di ginseng diretti ad est, verso la strada di Forbes-Braddock...”

In quegli anni un simile traffico commerciale era uno spettacolo abituale. Ma questa volta la stranezza era che riguardava una rara radice cinese. Che ci faceva il ginseng, il “farmaco dell’anima” dei sovrani del Celeste Impero tra ladri di cavalli, avventurieri e rozzi coloni del Nord America, dediti al tabacco e all’alcol? Per caso, i parsimoniosi americani del Settecento erano tutti impazziti e si erano messi ad importare dalla Cina a caro prezzo tonnellate di ginseng, tutt’al più adatto, secondo la loro mentalità, a pallide e malaticce ragazze di Londra? Nient’affatto: quella costosa radice, al contrario la esportavano, e per giunta proprio a Canton, il primo porto cinese. Che cosa era successo perché si arrivasse ad una situazione tanto incredibile?
Il buon missionario padre Jartoux, che abbiamo visto riferire in Europa con meraviglia le strane proprietà medicinali del ginseng, di ritorno dalla Cina aveva lanciato sul Bollettino della Compagnia di Gesù una vera e propria profezia destinata ad avverarsi con insolita precisione (Foster 1986).
“Tutto mi fa credere che se questa radice potesse essere trovata in qualche altro paese al mondo, questo luogo dovrebbe essere soprattutto il Canada, dove –secondo la relazione che ho inviato– le foreste e le montagne sono molto simili a quelle della Cina”.
Non si sa se il missionario fosse già in possesso di qualche notizia segreta dal Nord America o se il buon Dio avesse ordinato un trattamento di favore per i fedeli Gesuiti. Fatto sta che, puntualmente, una radice uguale al ginseng orientale viene trovata in alcune zone forestali o montagnose del Canada e dell’est degli Stati Uniti. E anche qui, è curioso, c’è un missionario gesuita di mezzo, anch’egli francese. Che cosa era successo?
Pochi anni dopo che il gesuita Jartoux aveva pubblicato le sue relazioni sulla radice “anti-fatica”, padre Joseph Francois Lafiteau, che nel 1711 era stato inviato come missionario in Canada e aveva letto sul Bollettino dei gesuiti della scoperta del confratello, si trova a Sault Saint Louis vicino a Montreal e vuol provare se l’ipotesi di Jartoux è fondata o no. E così, nel 1716, dopo tre mesi di vane ricerche –riferisce il Foster (1986)–un bel giorno ha la fortuna di trovare per caso una pianta praticamente uguale al ginseng. La mostra ad una donna pellerossa della tribù dei Mohawks. Questa sorride e, fatti pochi passi, estirpa un’altra pianta e gli mostra un’altra radice perfettamente uguale.
Figuriamoci quale deve essere stata la meraviglia e la contentezza del missionario. Il raro e costosissimo ginseng cinese, per il quale in Oriente si arrivava ad uccidere e si dichiaravano guerre, era una pianta banale e relativamente comune nelle foreste del Nord America, tanto che gli aborigeni pellerossa Mohawks (gli “irochesi” di cui parla spesso Voltaire), insomma i Cherokee e molte altre tribù, lo conoscevano come farmaco e alimento anch’essi da millenni, anche se pare che non gli avessero mai dato troppa importanza.
Quel che è certo, è che mai scoperta miliardaria fu più semplice e casuale. Padre Jartoux aveva previsto tutto, ma non che un confratello potesse diventare miliardario con l’esportazione della radice che curava l’impotenza, né che la Compagnia di Gesù potesse finanziare le sue missioni con i miliardi fatti vendendo ginseng canadese addirittura alla Cina. E’ vero che i Gesuiti avevano fama, presso gli ordini religiosi avversari, di applicare Machiavelli, cioè di voler raggiungere il fine ricorrendo ad ogni mezzo, ma questa spettacolare impresa scientifica e commerciale insieme, in teoria molto più ardua che “vendere vasi a Samo”, deve essere sembrata troppo fortunata agli stessi suoi protagonisti, che forse per questo avranno fatto penitenza per tutta la vita.
Baciato dalla fortuna, padre Lafiteau invia nel 1718 una relazione di 8000 parole sulla scoperta del “ginseng americano” al Reggente del Regno di Francia, il Duca di Orléans. Nel medesimo anno il naturalista francese Michel S.Sarrazin, che aveva collaborato col Lafiteau nell’identificazione della pianta, è citato in una relazione botanica apparsa nella Histoire de l’Academie Royale des Sciences . Studioso di etnologia oltre che di botanica, il Lafiteau si fece poi sostenitore della teoria dell’origine asiatica degli indigeni americani, non si sa se utilizzando come prova anche il piccolo tassello del ginseng (trapiantato millenni prima?); ma certo scoprendo strette analogie con l’estremo Oriente anche nell’etnofarmacologia, nella botanica e perfino nel curioso nome che i pellerossa Mohawks davano al loro ginseng (“Gar Ent Oguen” cioè “fianchi e gambe”), concettualmente simile al “corpo umano” o alla “caricatura dell’uomo” con cui i Cinesi chiamavano la loro radice (Foster 1986).
Fatto sta che già nel 1718 iniziano le esportazioni del ginseng americano appena scoperto dal Canada verso Canton, a quanto riportano gli storici (Millspaugh 1892). Disperati per l’estrema rarità del ginseng in Cina, a causa di una caccia dissennata, dall’Impero del Sol Levante accorrono commercianti ed esperti di erbe nel Canada francese (Québec) e poi negli Stati Uniti –dove pure era stato scoperto il ginseng – tutti con un comprensibile atteggiamento, tra l’incredulo e il diffidente, per vedere con i propri occhi se si trattava proprio della medesima radice o di un raggiro degli occidentali. Ma di fronte all’evidenza debbono convincersi: quello americano è proprio uguale al loro ginseng e altrettanto buono.
I Gesuiti, dal canto loro, vista la bontà dei fini (la propaganda religiosa tra i gli indigeni) e soprattutto dei mezzi (vascelli), cominciano a spedire le radici in Cina. E’ il “boom”. Nella provincia franco-canadese del Québec il ginseng locale sale da 2 a 80 franchi la libbra in pochi mesi. Ma se è venduto a Canton dà un profitto di almeno 10 volte superiore.
Anche in numerosi stati nell’est degli Stati Uniti, dove il ginseng viene trovato in quantità, nonostante che i missionari gesuiti non vi abbiano potuto metter piede, scoppia sùbito la febbre del commercio delle radici di ginseng. Ma con un fervore ed un’organizzazione commerciale ben maggiori che nel Canada francese,. Alla Borsa di New York quelle radici storte valgono ben 1 dollaro alla libbra ( 453 g), e il dollaro del Settecento è un dollaro pesante: vale centinaia di volte di più rispetto ad oggi. In Cina, poi, hanno un valore altissimo: 5 dollari la libbra, all’ingrosso. Il ginseng americano lo acquistano i pochi cinesi ricchi. I contadini cinesi, poverissimi, che sopravvivono grazie ad un’economia fondata sul baratto ed anche i poveri delle città, rischiano la fame pur di comprare un pezzetto di radice americana. Scherzi della storia.
“Il ginseng li cura per poi lasciarli morire d’inedia”, sarà ancora un secolo più tardi, nel 1898, il caustico commento all’altissimo prezzo della radice in Cina dell’americano H.Garman, su una rivista del Kentucky. Ed ha tutte le ragioni. Tranne una: quella di riferirsi solo agli acquirenti. In realtà il ginseng, se guarisce qualcuno, guarisce i venditori, e li guarisce dalla povertà. Per gli imprenditori coraggiosi, infatti, i profitti sono altissimi; oggi diremmo miliardari. Sono stati trovati documenti che attestano, per esempio, che nel 1775 la “Hingham”, una nave mercantile armata a sloop navigò tra Boston e la Cina con ben 55 tonnellate di radici di ginseng nella stiva. Un’altra, la Empress, esportò in Cina nel medesimo viaggio 3000 pellicce grezze e 30 tonnellate di ginseng raccolto in Virginia e Pennsylvania (Gronewald 1984).
Trovata poi anche una seconda specie autoctona, sia in Canada che negli Stati Uniti, le due specie occidentali, d’allora in poi entrambe note come ginseng americano, ebbero la fortuna di essere sùbito denominate dal grande classificatore svedese Linneo, allora ancora vivente: la prima Panax quinquefolius L., la seconda Panax trifolius L., popolarmente nota come dwarf o groundnut (“noce di terra”). Ironia della sorte, la specie orientale Panax ginseng sarà invece classificata quasi un secolo dopo.

Già nel Settecento il ginseng americano sarà oggetto per decenni ––di una vera e propria anticipata corsa all’oro –oro verde, in questo caso–che vedrà accorrere molte migliaia di coloni americani e di indigeni, ugualmente desiderosi di arricchirsi rapidamente. Un vero e proprio Far East, vista la collocazione geografica. E così, già cinquant’anni prima della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, le zone selvagge e boscose degli stati di Québec e Ontario (in Canada), Maine, Wisconsin, Iowa, Missouri, Arkansas, Alabama, Georgia e South Carolina (negli Stati Uniti), sono percorse da folle di cercatori di ginseng.
Queste torme di uomini rozzi e vocianti, malvestiti e dall’aspetto poco rassicurante, sono, però, composte di uomini liberi, che, armati di badili, sacchi di iuta e falcetti, battono metro per metro foreste e montagne, per la verità assai poco interessati agli aspetti botanici o terapeutici della faccenda, ma molto a quelli economici (Fulder 1996). Concorrono duramente tra loro, è vero, ma su un piede di parità, e –già nel ‘700– prima della Rivoluzione francese, hanno il raro privilegio di lavorare per se stessi, e perciò possono e vogliono diventare ricchi, a differenza dei loro contemporanei servi della gleba in Russia, contadini schiavi in Cina, braccianti dei nobili e del clero in Europa.
Chi l’avrebbe detto? La radice del ginseng diventa il simbolo d’una allegoria che mette a confronto due società esattamente agli antipodi e non solo in senso geografico, quella cinese e quella americana. E così la storia si può divertire con i suoi paradossi. La radice che secondo il Tao doveva dare vitalità e rafforzare il Chi dell’antico, prudente e conservatore uomo cinese, diventa una metafora della libertà e dell’intrapendenza del coraggioso e innovatore uomo americano.
Il dottor Harding, singolare figura di medico e piantatore di ginseng, in un libro dei primi anni del Novecento ripreso dal Fulder (1996) ha lasciato testimonianze dirette sui curiosi episodi di vita quotidiana di quei tempi avventurosi che affascinano ancor oggi, perché delineano con vividi particolari un periodo confuso e poco noto che vede stranamente sovrapporsi la storia del nuovo stato americano, la storia del costume e la storia del ginseng. E lo scritto del medico americano è anche la prima “guida completa al ginseng”, perché aggiunge preziose prescrizioni e consigli per l’uso curativo di questa radice allora del tutto esotica per gli occidentali, ed anche fondamentali regole e piccoli segreti di coltivazione della pianta, che agli agricoltori locali si rivela subito molto delicata .(Harding 1908).
E così, piccole e instabili navi requisite agli Inglesi, con le stive cariche di ginseng, dirigono la prua verso la lontana Cina, per il commercio più assurdo del mondo. E dopo il primo “miracolo americano”, cioè la fortunosa scoperta della magica radice nel Nuovo Mondo, meraviglia noi moderni che l’economia dei neonati Stati Uniti, dopo una lunga guerra d’indipendenza, fosse ancora così efficiente da riuscire –in pieno Settecento– a compiere un “secondo miracolo”, forse più strabiliante del primo: inviare con regolarità all’altro capo del mondo, solcando per molti mesi gli oceani avventurosamente su piccoli e pericolosi vascelli a vela, enormi carichi di una merce preziosa, forse ambita anche dai pirati, e che oltretutto teme l’umidità, come il ginseng. Ogni anno, infatti, gli Usa vendevano radici alla Cina per migliaia di tonnellate, inviando navi mercantili fino a Canton.
Chi ci guadagnava? I Gesuiti, ormai, avevano perso il monopolio che avevano conquistato a sorpresa. Il ricavo va ormai a coraggiosi commercianti esportatori, ma soprattutto ai veri e propri imprenditori raccoglitori. Uno di questi avventurosi cercatori americani di seng –così era chiamata nei fumosi saloon la preziosa radice totalmente destinata ai cinesi—era un certo Daniel Boone, cacciatore di pelli ed esploratore, che con il suo battello carico di radici appena estirpate navigava lungo il fiume Ohio. Nel 1787, riportano le cronache, il suo barcone fluviale si capovolse e Boone perse in acqua tutto il suo carico miliardario: ben quindici tonnellate di seng. Per nulla turbato, il cercatore riprese la sua raccolta di seng l’anno successivo e diventò ricco.
Uno degli uomini più ricchi e famosi dell’intera storia degli Stati Uniti, John J.Astor (in cui onore fu poi costruito il Waldorf Astoria), dovette la sua fortuna alla raccolta e al commercio di pellicce e ginseng, due prodotti che, per quanto strano possa sembrare, erano economicamente collegati perché provenivano dal medesimo ambiente naturale. Astor spedì un socio con un carico di radici americane in Cina, riempiendo la nave al ritorno con tè cinese. Il suo profitto per questa sola operazione fu di oltre 55.000 dollari dell’epoca, pari a circa 15 milioni di dollari di oggi . Ancor oggi, nota il Bergner, il commercio del ginseng americano è rimasto legato ai grossi produttori di pellicceria.
Gli indigeni americani, poi, i soli che potevano dire di conoscere bene il ginseng da secoli, si gettarono a capofitto nel nuovo lucroso raccolto, tanto da abbandonare del tutto l’agricoltura. Si vide, così, uno strano spettacolo mai osservato prima: per la prima volta gli stessi altezzosi proprietari agricoli francesi del Canada o della Louisiana costretti ad accudire personalmente i loro campi. Gli affari colossali attirano la società francese Compagnie des Indes che finì per rilevare l’intera produzione annua , che attraverso la Francia arrivava dopo mesi alle coste della Cina. Equivoci ed errori non mancarono da parte degli improvvisati commercianti, alcuni dei quali scoprirono a loro spese che la radice essiccata al forno non veniva accettata dai cinesi.

Ogni anno è più abbondante il ginseng americano esportato in Cina. Basti considerare che già nel 1862 si arrivò ad una esportazione complessiva di ben 622.761 libbre di radici essiccate. Ma la natura, depredata, finisce per vendicarsi. Alla fine dell’Ottocento, com’era da attendersi, a causa dell’estendersi dell’agricoltura a danno delle foreste e soprattutto dell’ottusa avidità di cercatori senza scrupoli, la radice che era stata quasi eliminata già un secolo prima dai cercatori cinesi in Cina, comincia a scarseggiare anche in America. Poco efficaci furono da una parte gli sforzi del Governo per regolamentarne la raccolta, dall’altra i primi tentativi –solo alcuni dei quali fortunati– di coltivazione con seme, a partire dal 1890.
I coltivatori non avevano calcolato che le piante coltivate pretendono distanze maggiori e sono molto più sensibili agli agenti esterni di quelle spontanee. Cosicché, muffe, parassiti come insetti, funghi e vermi, e l’umidità eccessiva portano alla decimazione dei raccolti per molti anni di seguito, provocando il fallimento di molte imprese. Nel 1910, l’anno nero per i coltivatori americani, l’intero raccolto di ginseng va, in tal modo, praticamente distrutto per cause naturali e la crisi economica si diffonde nell’intero settore.
Eppure, la redditizia industria nord-americana della “radice che guarisce” ha la forza di riprendersi, ricorrendo a tecniche più razionali di coltivazione. Ma ora produce ed esporta a livelli molto inferiori rispetto ai “tempi d’oro”. A tutt’oggi, l’industria del ginseng coltivato del Nord America è un’attività economica abbastanza florida, tanto da esportare a Hong Kong negli ultimi anni prima del divieto del 1978 fino a 250 mila libbre all’anno, in media, di radice selvatica, con un ricavo totale intorno ai 20 milioni di dollari. Ma negli ultimi anni, per motivi di difesa ecologica, si esporta solo ginseng coltivato.
Il ginseng viene sempre più coltivato in Canada (Québec, Ontario, Columbia britannica), con una produzione annua che ormai ha superato quella degli Stati Uniti (New England, Wisconsin, Illinois, North Carolina, Tennessee, Georgia, Missouri e altrove). La produzione totale annua di Panax quinquefolius nel nell’intero Nord America è stata nel 1998 di circa 5.000.000 di libbre (Smith 1998). Rispetto al passato, però, la novità è che oggi esistono negli Stati Uniti –soprattutto in Wisconsin, Tennessee e Kentucky– fattorie specializzate nella coltivazione di ginseng da seme che da sole possono produrre anche un terzo dell’intera esportazione annua verso la Cina. E poiché il consumo interno è minimo, viene esportato verso l’estremo Oriente dall’85 al 90 per cento del raccolto nordamericano. E la coltivazione, lamentano gli agricoltori specializzati, è molto rischiosa e laboriosa. Qualche anno fa il prezzo di mercato era dai 13 ai 15 dollari la libbra (prodotto grezzo).
Nessuno può, tantomeno oggi, improvvisarsi coltivatore di ginseng. E non solo per la necessità di conoscere tecniche agricole particolari ma anche per l’entità dell’investimento. Piantare un solo acro di terra (meno della metà di un ettaro), infatti, costa dai 13 ai 15 mila dollari e più, come ha dichiarato un piantatore del Wisconsin (Fulder 1996). E’ stato proprio il dottor Harding, quando alla fine dell’800 le radici selvatiche cominciarono a scarseggiare a causa della raccolta indiscriminata, come era già accaduto in Cina, ad insegnare il metodo più razionale di coltura del ginseng da seme.
La piantina del ginseng va fatta crescere –sostiene Harding– come fanno i coltivatori in Corea. Il seme ha bisogno di una germinazione di 18 mesi sotto uno strato di segatura o di foglie; le piantine poi vanno curate una ad una con molta pazienza e ripiantate più volte, finché non diventavano adulte. Il luogo ideale sembra quello delle foreste di latifoglie dalla fitta ombra, ben ventilate, dove i “letti” per le piantine devono poggiare su terreno sabbioso e granitico ed essere ben distanti tra loro, per evitare muffe, infezioni e attacchi di ogni genere di parassiti. Quando la pianta inizia ad essere matura, poi, c’è il rischio del furto, come in Oriente. Il proprietario, quindi, deve far sorvegliare le piante a lungo, in alcuni casi anche per sette anni, con costi evidentemente molto alti.

E’davvero curioso, ammettiamolo, che nelle erboristerie degli Stati Uniti il pubblico si rifiuta di acquistare il ginseng americano, tranne qualche raro raffinato intenditore o gourmet delle erbe, che però chiede sicuramente la radice selvatica, ormai quasi introvabile e costosissima. Ma così è: per il Panax quinquefolius, nonostante i prezzi più bassi rispetto al ginseng coreano Panax ginseng, quasi non c’è mercato in America (Fulder 1996). Gli Stati Uniti, dunque, poiché quasi non consumano il ginseng che producono al loro interno, lo devono importare dall’Oriente. Ecco il primo paradosso che unisce e divide nel nome del ginseng due continenti che la storia della radice ci fa scoprire lontanissimi e vicinissimi: l’Asia e l’America.
Ma si è scoperto che, in fin dei conti, agli americani tutto questo conviene. Possibile? Sì, grazie ad un più curioso secondo paradosso, che altro non è se non l’effetto della forte sproporzione tra le domande interne delle due diverse specie, sia in Asia che negli Stati Uniti. In sostanza, la domanda di ginseng americano da parte dei consumatori asiatici sul mercato interno è, stranamente, così alta che oggi in Asia il Panax quinquefolius, nonostante che in terapia gli vengano attribuite da alcuni esperti e commercianti orientali “proprietà differenti” o sia addirittura considerato “meno efficace”, è più richiesto di quanto il ginseng cinese lo sia sul mercato interno americano. Il che sembra davvero incredibile, ma è verissimo(…).
Un incredibile terzo paradosso sono le adulterazioni. In Cina, per guadagnare di più, i commercianti disonesti vendono il ginseng cinese per ginseng americano, e non viceversa come tutti noi immaginiamo, come ha documentato But et al. alla International Ginseng Conference di Vancouver (1994).
Il quarto paradosso è forse il più divertente e denota la simpatica mentalità ambivalente dei cinesi, sempre divisi come molti orientali tra nazionalismo e imitazione di tutto ciò che viene dall’Occidente. Oggi in Cina il ginseng americano costa il doppio di quello cinese (circa 300 dollari la libbra), naturale conseguenza di una domanda interna altissima.
Il quinto paradosso lo ha creato la natura. Gli agronomi hanno scoperto che la varietà coltivata della specie americana è molto più simile alla specie selvatica di quanto non lo sia la cultivar orientale. E di questo c’è una spiegazione convincente: la radice asiatica, infatti, viene coltivata da diversi secoli, secondo alcuni autori probabilmente già dal Seicento, e quel che è più grave in modo intensivo, il che in Oriente ha portato a marcate differenziazioni genetiche tra piante coltivate e piante spontanee. Inoltre, la specie spontanea nel Nord America praticamente non ha domanda interna, tranne quella di pochi raffinati ed esigenti superesperti, e perciò basta e avanza rispetto al mercato interno.
Già nel 1978, un decreto del Governo federale degli Stati Uniti ha dichiarato il divieto di esportazione del ginseng americano, al fine di salvaguardarne la specie che è ormai molto rarefatta. Che, però, a differenza di quella orientale, non è ancora in pericolo totale di estinzione, come sostiene il Fulder. Cosicché, per ipotesi, se oggi una famigliola di turisti o una scolaresca, volessero mettersi a cercare ginseng in zone segnalate da amici esperti, per esempio tra i boschi dei monti Allegani e nella contea di Catskills, e comunque in tutti gli States orientali a nord della Georgia e del Missouri, camminerebbe molto, questo è certo, ma avrebbe qualche probabilità, sia pure remota, di trovarne un esemplare,. Una situazione che in Corea e in Cina potrebbe verificarsi solo in sogno (Fulder 1996).
Ma la ciliegina sulla torta (il sesto paradosso) è che oggi in Cina si coltiva il ginseng americano (Bergner 1996).Dopo essersi precipitati in America e aver ammesso che il ginseng americano era "perfettamente uguale" e aveva “lo stesso sapore”, ed averne importato per secoli migliaia di tonnellate ogni anno a caro prezzo, alcuni esperti cinesi hanno decretato che, però, all’atto pratico “è una pianta diversa”, con “proprietà diverse”, che “non può essere considerata un sostituto del ginseng orientale”. Con tutto ciò, ora si mettono a coltivarlo.
E non è finita. Esiste anche un settimo paradosso, che dopo tutto quello che abbiamo visto sopra è davvero inspiegabile: dopo averlo pagato il doppio, dopo aver cercato di coltivarlo in casa, dopo averlo anche contraffatto con quello coreano, alcuni ineffabili esperti cinesi sostengono che “il ginseng americano è “inferiore”, meno buono come tonico del Chi di quello coreano”. In realtà –ha spiegato lo studioso di medicina cinese H.Y.Hsu– il ginseng americano sarebbe in teoria un tonico Yin, mentre il ginseng coreano o cinese un tonico Chi (vedi al quarto paragrafo del Capitolo Secondo, sulle cosiddette “radici minori”).
E se questa ennesima curiosa incongruenza orientale vi ha meravigliato, vi sorprenderà ancor di più apprendere l’ottavo paradosso, cioè che già nei secoli scorsi il ginseng americano, che non era assolutamente usato dagli Americani, faceva parte del quotidiano e familiare uso terapeutico cinese. Nell’Ottocento, come riporta il Duke, ad una ragazza cinese di Hong Kong in preda a scarlattina e febbre alta venne dato come antipiretico –d’accordo col medico– il ginseng americano (Leung 1984).Questo, mentre nello stesso anno dell’Ottocento, ad un’ipotetica ragazza di Chicago, i medici americani avranno prescritto per la medesima febbre chissà quale farmaco tossico, oppure magari l’applicazione delle ventose o delle sanguisughe. Ad ogni modo, finalmente il quadro di “costume farmacologico” cinese ci è chiaro: il ginseng americano è considerato cinese dai Cinesi, più di quanto la “zuppa inglese” e la “insalata russa” siano ritenute italiane dagli Italiani.. Con la differenza, però, che queste ultime due non esistono nelle presunte “patrie” d’origine.

Ritorniamo al fortunato missionario gesuita francese padre Joseph Francois Lafiteau, che abbiamo lasciato mentre nel lontano 1716 scopre, dopo tre mesi di vane ricerche, una piantina del tutto simile al ginseng cinese. Padre Lafiteau si trovava da sei anni nella missione in Canada tra i pellerossa irochesi o Mohawks della tribù dei Caughnawaga, a Sault St.Louis, sopra Montreal. Naturalmente, la prima persona a cui mostra trionfante la pianta, con tutta la radice, è una donna indigena. Sapeva che le donne dei pellerossa, specialmente se di una certa età, sapevano riconoscere molte piante spontanee, che del resto erano abituate a raccogliere per gli usi della famiglia e della tribù.
Lafiteau ignorava, però, che quell’anonima e insignificante piantina –secondo la tesi di qualche etnologo– era conosciuta e apprezzata non solo da quella tribù ma in tutto il Nord America e serviva da secoli ai popoli Amerindi o indigeni come medicina, proprio come accadeva in Cina e in tutto l’Oriente. Il gesuita nella sua relazione raccontò che la donna pellerossa, vista la radice si illuminò in volto, sorrise e fatti pochi passi nella vegetazione estirpò un’altra piantina del tutto simile (Foster 1986). La radice miracolosa più ricercata e costosa d’Oriente, per cui in Cina si arrivava a rubare e ad uccidere, in Canada era invece un’erba comune, di uso gratuito, alla portata di tutti? Il missionario quasi non voleva crederci.
Cominciò ad interrogare i vecchi delle tribù e le anziane donne indigene sugli usi che “da tempo immemorabile” –assicuravano– facevano di quella radice, ed è così che poté sviluppare la sua innata passione per l’etnologia e l’antropologia umana. Tenne nota in vari quaderni delle sue “interviste” e delle sue osservazioni “sul campo”, finche non ebbe un quadro sufficientemente completo degli usi della medicina popolare, nelle varie tribù, in quella parte del Nord America.
In seguito, i moderni studi condotti negli Stati Uniti e in Canada sull’etnomedicina dei popoli autoctoni del Nuovo Continente hanno completato il quadro, ed ora abbiamo molte informazioni in più anche sull’uso tradizionale delle due specie americane del ginseng (Panax quinquefolius L. e Panax trifolius L.) presso i popoli Amerindi. Ed ecco la prima sorpresa: l’uso preventivo e curativo del ginseng americano tra i Pellerossa è del tutto simile a quello del ginseng coreano-cinese tra i Cinesi. Fu proprio il Lafiteau, del resto, ad avanzare per primo l’ipotesi dell’origine orientale degli indigeni d’America (Foster 1986). Ma confrontando i diversi impieghi terapeutici del ginseng, ha fatto notare Angier (1978), resta ancora senza risposta il principale interrogativo antropologico: quali usi sono nati in Oriente e quali in Occidente?
Ma non pochi autori mettono in dubbio l’esistenza stessa presso gli Amerindi di “tradizioni” curative che riguardino il ginseng americano Insomma, le numerose e strane usanze terapeutiche sul ginseng attribuite ai Pellerossa delle varie tribù da tanti storici americani, sono davvero originarie o non piuttosto acquisite dall’Oriente nel corso degli ultimi due secoli, dopo la scoperta del ginseng in America? Ecco l’intrigante interrogativo di antropologia culturale posto dal Moerman (1977).
L’Harris, che pure ha fornito, come abbiamo visto, uno studio accurato delle indicazioni terapeutiche in uso nelle varie tribù americane (1978), come nota il Duke nel citarlo, non dà una risposta. Le concordanze con gli usi popolari dell’Estremo Oriente, infatti, sono quasi totali, si direbbe. Ma è proprio questa coincidenza che genera nel Moerman il sospetto – riferisce il Duke senza essere d’accordo– che per i pellerossa l’uso terapeutico del ginseng sia in realtà culturalmente acquisito, cioè appreso dai cinesi o dai commercianti bianchi per cui raccoglievano le radici ai tempi della “corsa all’oro verde”. D’altra parte, nell’indice del rapporto American Indian Medicines di Vogel (1970) le voci “ginseng” e “Panax” mancano del tutto, fa notare lo stesso Duke. Ma è immaginabile che un popolo che vive da sempre su un territorio non conosca e non usi alla perfezione le erbe spontanee che crescono sul suo terreno, specialmente quelle munite di tuberi? No, è impensabile, come abbiamo visto in analoghe culture antiche, per esempio tra Etruschi e Italici, le cui popolazioni rurali e montanare conoscevano perfino i segreti per un possibile uso alimentare di funghi, tuberi e bulbi tossici, come Asphodelus sp.
Nel manuale universitario di Medical Botanic gli autori appaiono scettici sulla questione, come riporta correttamente Duke. Gli indiani americani, sembra che avessero un atteggiamento di sufficienza nei confronti della radice. Probabilmente gli Amerindi usavano il ginseng con parsimonia e solo dopo aver venduto il raccolto destinato all’esportazione. Però è credibile che gli Ojibwas (o Chippewas) possano aver avuto realmente l’usanza di ricorrere al ginseng per prolungare la vita e alleviare il dolore (Lewis e Elvin-Lewis 1977). Specialmente il primo autore appare poco convinto: “Esiste solo una piccola evidenza che il ginseng sia stato usato come panacea nel Nuovo Mondo prima che la sua scoperta, la raccolta e l’esportazione avessero inizio, nel XVIII secolo” (Lewis 1985).
Ad ogni modo, ha sostenuto una rivista di economia botanica, non è sicuro che gli indigeni degli attuali Canada o Stati Uniti abbiano usato spesso e regolarmente il ginseng, anche se questa pianta vi si trovava in discreta abbondanza. E’ probabile che essi abbiano conosciuto la pianta; ma se è così, comunque è certo che non l’hanno utilizzata in modo regolare o continuativo come i Cinesi. Una prova portata a favore di questa tesi limitativa, contraria alla tesi di Leitch, è la carenza di testimonianze e documenti antiche. Pare, in altre parole, che il ginseng americano non abbia costituito un articolo di scambio commerciale tra le tribù (Carlson 1985). Tesi analoga sostiene uno studioso coreano, con un tocco d’eloquenza ciceroniana, appena più contorta: “In Oriente il ginseng fa parte della medicina tradizionale da 5000 anni; in Occidente invece solo dal XVIII secolo è diventato un oggetto d’interesse. Ma a dispetto della tesi che gli indigeni americani hanno avuto la tradizione dell’uso del ginseng come mezzo per ottenere forza e giovinezza esteriore, essi non sembrano dedicargli grande attenzione. Eppure, se il ginseng non avesse tutti gli effetti attesi, perché mai gli asiatici avrebbero valutato il ginseng più dell’argento e dell’oro? (M.W.Hone 1978)”.
Ma questo scetticismo in mancanza di prove antiche certe non sembra piegare le convinzioni di altri studiosi. Si fa notare, per esempio, che nelle loro preghiere alle divinità vari popoli Amerindi fossero soliti chiamare la radice di ginseng come “il Grande Uomo” e che questa pianta fosse molto considerata dai Cherokee. Un documento del 1880 –un po’ troppo tardo, come si vede– attesta la vendita della pianta intera da parte degli indiani Cherokee per la non altissima cifra –riferisce Duke—di 50 cents la libbra. Non solo, ma prima della raccolta delle piante nei boschi gli indigeni indirizzavano una preghiera alla montagna, chiedendo perdono perché di lì a poco avrebbero tagliato dei “pezzi della sua carne” (Krochmal 1978). Ma sono tutte testimonianze troppo recenti, successive alla “scoperta” di padre Lafiteau in Canada.
Secondo gli storici dell’agricoltura, i primi colonizzatori che si spingevano nella North Carolina dell’ovest avevano visto che gli indiani usavano il ginseng, tanto che gli stessi indiani ripulirono ben presto le grandi foreste delle costosissime radici (Byrd 1979). D’altra parte, fino a quasi il 1900, quando solo qualche agricoltore cominciò a sperimentarne la coltivazione, il solo modo di avere del ginseng era quello di “battere la foresta come selvaggi”.
Anche un noto studioso orientale, riporta il Duke, ha riconosciuto che gli Amerindi, come i Cinesi, possono vantare un lungo periodo d’uso del ginseng: “Sia in Asia orientale che nel Nord America orientale, da tempo immemorabile i popoli hanno raccolto ginseng, consumandolo dapprima come cibo per mitigare la fame e alleviare la fatica, poi come medicina” (S.Y.Hu 1980). Gli indiani Irochesi Oneida, ottimi agricoltori, producevano grandi raccolti di granturco, fagioli, zucche, tabacco e ginseng. Negli anni migliori qualcosa come 1000 stai o moggi di radici di ginseng venivano raccolti per i commerci con le altre tribù indiane e gli Europei (Leitch 1979).
D’accordo, però anche queste testimonianze si riferiscono a tempi incerti, mentre in indagini storiche come questa è la precisa successione dei documenti, insomma la cronologia, che conta. Perciò, resta insoluto l’interrogativo iniziale: i Pellerossa conoscevano o usavano il ginseng americano prima della “scoperta” di padre Lafiteau? Fino ad oggi non è chiaro.1 Pastori di renne, provette e soldati

 

“E lì per la prima volta vidi Ginseng, la radice di vita –così preziosa e rara che di trasportarla erano stati incaricati sei giovanotti forti e ben armati. Dentro una cassettina di scorza di cedro, poggiata su del terriccio nero, stava una piccola radice giallastra, che mi ricordava il nostro prezzemolo. Dopo avermi fatto posto, tutti i cinesi si sprofondarono di nuovo in muta ammirazione; e anch’io, esaminandola attentamente, cominciai a discernere in quella radice, non senza meraviglia, delle forme umane: si vedeva chiaramente il tronco suddividersi in due gambe, e c’erano anche le braccia, un piccolo collo con sopra una testa, e persino una treccia, mentre le radichette alle mani e ai piedi somigliavano a lunghe dita…” (M. Pri_vin, Ginseng, Adelphi 1979).

 

Così un giovane chimico russo che durante la guerra russo-nipponica del 1904 abbandona di nascosto il fronte, passa la frontiera con la Cina e all’improvviso si trova in un altro mondo. E’ la Manciuria, una terra dalla natura incontaminata, tra foreste e valli in cui cresce la pianta dai “poteri magici”, capace di soggiogare anche i più rozzi soldati. Inutile dire che la sua vita cambierà, e in modo avventuroso.
Il momento d’incanto, l’arrivo della preziosa cassettina della radice che “sembra prezzemolo”, scandisce in Ginseng, del russo M. Pri_vin, il doppio mutamento d’ambiente e di psicologia tra la Russia delle certezze e la Cina della magia, e forse aiuta a capire la strana seduzione con cui il ginseng irretisce i russi –siano essi scienziati o soldati– che lo avvicinano per la prima volta.
Perché questo è stato, fin dall’inizio del Novecento, l’ambiguo rapporto tra i russi e il misterioso ginseng dell’oltre-frontiera cinese. E su quella martoriata terra di guerre di confine, sia i soldati che gli scienziati –Brekhman più d’ogni altro– sono rimasti incantati dal mistero della piccola radice come i cacciatori cinesi raccolti nella capanna del racconto di Pri_vin.
Nella regione del fiume Ussuri, al confine tra Russia e Cina, si sono a lungo fronteggiate due diverse culture. Ma il ginseng selvatico si è trovato anche in altre regioni. Si racconta di un certo pastore Yganopuski che avrebbe coltivato il proprio ginseng per dodici anni, distruggendo la coltivazione quando la regione fu annessa al nascente impero sovietico Il ginseng selvatico, in Russia e nella disciolta federazione delle repubbliche sovietiche, si dovrebbe trovare sparpagliato lungo il corso del fiume Hyukruong e intorno all’area detta di Yean Hea, dai 40 ai 48° di latitudine nord, soprattutto nelle foreste di montagna al di sopra dei 1000 m.(Duke 1989).
La prima coltivazione “razionale” sembra che l’abbiano iniziata i pastori di renne nel 1910 sulla penisola Shedeide. Al posto delle vecchie capanne di fuoriusciti cinesi e di cacciatori siberiani, attorno a cui si praticavano dapprima la raccolta e poi la coltivazione clandestina di ginseng (Panax ginseng), sono sorte anni fa grandi fattorie di Stato che conducevano le colture con metodi ultratecnologici, ad esempio ricorrendo al trattamento dei semi con l’acido giberellinico, che ha la proprietà di ridurre i tempi della germinazione e di favorire lo sviluppo dell’intera pianta. Un ginseng uguale a quello coreano è stato prima a lungo raccolto e poi coltivato in fattorie tecnologiche modello anche in Siberia, Bielorussia e a sud di Habarovsk (Baranov 1966).
Negli anni Trenta furono condotti esperimenti di coltivazione nella foresta di Soopuginiski e in una foresta protetta di pini di Corea. Dal 1952 al 1953 vennero usati i semi del ginseng di Corea dalla sezione Estremo Oriente della Accademia delle scienze, per esperimenti di coltura e fitopatologia (Duke 1989). Esperimenti, forse anche con l’aiuto dell’ingegneria genetica, sono stati condotti su vasta scala anche in aree geografiche molto lontane da quelle originali, come il Caucaso (Riserva di Tiberdin) e la Bulgaria. Pur nel segreto che ha avvolto questo tipo di ricerche in Russia, sembra che una parte di ginseng sia stata addirittura prodotta totalmente in vitro nelle provette dei laboratori di agronomia dell’Università di Mosca, dove le piantine di ginseng coreano venivano o vengono tuttora –non è dato sapere con certezza– nutrite in modo “razionale” solo di sostanze chimiche (Fulder 1996). Oggi, dopo che nel 1989 la caduta dell’impero sovietico ha rivelato insieme i limiti della scienza “di prestigio” e una profonda crisi economica, non si sa nulla dello stato attuale delle coltivazioni sperimentali e convenzionali di ginseng in Russia.
Con l’invasione della Corea del nord, nel 1945, gli scienziati russi furono contagiati dalla passione coreana per il ginseng. Il loro rinnovato interesse fu chiaro quando le autorità sovietiche annunciarono in un rapporto di aver requisito, durante la guerra coreana, l’intero raccolto di ginseng della Corea del nord. Il ginseng fu così ben studiato e sperimentato che lo scienziato russo Brekhman, dell’Istituto di sostanze biologiche di Vladivostock, divenne forse la massima autorità mondiale in materia di sperimentazioni con il ginseng: Delle sue scoperte e dei suoi esperimenti sugli animali e sull’uomo, il primo dei quali fu condotto nel 1948, si tratterà più avanti nei capitoli della sperimentazione biologica. Nel frattempo non sfuggiva agli agronomi l’aspetto economico, e la Russia cominciò subito a produrre ed esportare ginseng in tutto il mondo, specialmente in India e in Africa (Lucas 1969).
E la Corea? Qual è la storia del Panax ginseng, noto anche come ginseng “coreano”, nell’antico dominio di Koguryo o Koryo, in cui alcuni esperti coreani ritengono che esista l’habitat ideale per la pianta? Non si può passare sotto silenzio che l’agricoltura dell’intera Corea d’oggi è in pratica monopolizzata dalla magica radice che dà ricchezza. Si calcola che la Corea oggi esporti ginseng per la bella cifra di 70 milioni di dollari o di euro, pari a 140 miliardi di lire all’anno (Fulder 1996).
Il ginseng selvatico si poteva ancora trovare fino a qualche anno fa nella provincia di Pyon Gyanbuk Do, ma oggi è quasi del tutto estinta: resteranno tutt’al più un centinaio di radici selvatiche, che devono soddisfare da 20 a 80 raccoglitori professionisti, gli shimmani, e un migliaio di raccoglitori di frodo o dilettanti. Eppure la loro perseveranza ha una logica. Sanno che, al prezzo che viene pagato oggi per una vera radice selvatica, basterà loro trovare una sola radice per arricchirsi per tutta la vita (Fulder).
Quello coltivato copre estensioni imponenti e sorvegliate, un po’ dovunque nella penisola coreana, soprattutto a Songto, vicino alla capitale, a Yong San e Kam San. La coltura ormai è intensiva e più rapida d’un tempo, quando si usava lasciare i campi incolti, a maggese, per 10-15 anni, rovesciandoli periodicamente, prima di ripiantarvi il ginseng. Oggi la coltura intensiva pretende di accorciare il periodo di maggese a due anni e piantare invece legumi, che dovrebbero arricchire il terreno di azoto rapidamente. Così, è vero, si coltivano più piante, ma queste sono più deboli di fronte ai parassiti, ai funghi e alle muffe, cosicché non di rado le radici marciscono, come accadde nel 1965 all’80 per cento della produzione di Kam San (Fulder).
Ma è possibile che una nazione che oggi vive di ginseng come la Corea non abbia neanche un documento storico che attesti l’uso antico della radice? Secondo lo storico coreano M.W.Hong (1978), a cui attinge largamente il Duke, nel libro più antico di storia coreana Sam Guk Yu Sa, che risale a 4000 anni fa, si fa menzione come farmaco dell’aglio, ma stranamente il ginseng non è citato. In compenso, sono state trovate due fonti molto più recenti, degli anni della dinastia Sui: il libro cinese Han Yuan che fa riferimento alla produzione di ginseng sul monte Ma Da San (forse è l’odierno Kai Ma Dai Sun) in Corea; ed il testo buddista Kuo Chin Pai Lu che parla di ginseng coreano. Nel già citato Pen Tsao o “Trattato delle erbe” cinese, si citano undici erbe medicinali prodotte in Corea, presumibilmente per il commercio con la Cina. Tra queste c’è anche il ginseng.
E’ troppo poco per quella che dovrebbe essere la vera “patria” della radice terapeutica, fa notare in sostanza il Duke. Ed è storicamente inutile supporre, come fa il coreano Hong, che “è impensabile che il popolo di Corea non usasse il ginseng per sé, mentre lo esportava in Cina”. Lo stesso, obietta il Duke, si potrebbe dire dei pellerossa americani. La storia, per fortuna, non si fa con le intuizioni, ma con i documenti. E i documenti sono in grave contraddizione, perfino in uno stesso autore, circa la data d’inizio della coltivazione. Lo storico Kisaki (1980) sostiene dapprima che il ginseng cominciò ad essere coltivato in Corea all’epoca di Seong Jo, della dinastia Yi che durò dal 1567 al 1608; ma poche pagine più avanti si contraddice e sostiene che risale “a più di mille anni fa” (Duke 1989).
In Giappone, invece, dove l’esattezza è un dovere, si sa che l’Impero del Sol Levante non produceva né importava ginseng fino al 400 d.C. (S.K.Hong 1982). Ma già nel 733 il brodo di ginseng veniva raccomandato contro il vaiolo, allora frequente. Fin dal tempo in cui al re Kaimoon fu presentato un dono di circa 20 kg di radici di ginseng, questa preziosa droga è presente sia nei doni che negli scambi tra giapponesi. Si ritiene che la coltivazione di Panax ginseng sia iniziata appena dopo il 1600, e che i primi tentativi, però, fossero diastrosi. Nel 1728 a Nikko ebbe finalmente successo la coltivazione sperimentale, a partire da 8 piante selvatiche e 60 semi importati dalla Manciuria e dalla Corea. Ma in realtà il Giappone continuò a ricorrere all’importazione dalla Corea per la maggior parte del ginseng che consumava, fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando le ricerche presso la stazione sperimentale Gaesung Ginseng ripresero quota. Oggi le maggiori colture sono nelle prefetture di Nagano, Shimane e Fukushima. L’area dedicata era nel 1974 di 415 ettari, 82 dei quali davano raccolti di circa 5000 kg per ettaro. La produzione totale era allora superiore a 400 tonnellate (Duke).
Il ginseng coreano o cinese coltivato in Giappone non va confuso con la specie autoctona Panax japonicus, nota come ginseng giapponese, ritenuta una pianta diversa sia morfologicamente che farmacologicamente da Panax ginseng e raccomandata dagli studiosi per una gamma diversa di disturbi, come si vedrà più avanti (Shibata 1978).
Sulla storia del ginseng in Cina, infine, mancano dati recenti, e tutti gli autori si limitano a far riferimento alle varie farmacopee antiche di cui si è già parlato. Lo stesso botanico americano Duke , che ha intrapreso un viaggio in Cina nel 1978, fino alla provincia di Heilung-kian, ad Harbin, non ha potuto sapere nulla e si è limitato a darci scorci del paesaggio tipico (“simile a quello autunnale del Vermont”, negli Stati Uniti) dove è nato spontaneamente ed oggi si coltiva il ginseng cinese.

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